Siamo arrivati alla fine. In questo nono capitolo il signor Sotto Sotto confida a Ciro la sua storia. E tante verità vengono, finalmente, a galla.
Buona lettura.
Enzaemira
9. L’oboe
Il platano aveva iniziato a perdere le prime foglie gialle. L'aiuola con rosmarino e salvia si stava avvizzendo, il vento freddo che - come dicevano alla tv - veniva dal nord Europa stava togliendo il respiro a tutti gli spazi verdi della città. Ne gioivano i palazzi che sembravano felici nel respingere quei soffi gelati benché un po' di quel freddo gli rimanesse incollato sugli intonaci. Ora la panchina di pietra bianca era come un masso di ghiaccio e il signor Sotto Sotto continuamente agitava le gambe nel tentativo di scaldarsi. I pantaloni di cotone spesso che indossava non erano più sufficienti a ripararlo dal freddo.
Ciro come al solito lo osservava dalla finestra.
Era iniziata la scuola e i compiti erano davvero tanti così il ragazzo non aveva più tempo per andare giù al palazzo. Gli dispiaceva però perché era stato divertente passare i pomeriggi a riflettere sulla verità delle cose.
Il vecchio con il vento freddo era diventato ancora più vecchio, più grigio, più rugoso, più testardo: insisteva a stare lì a fissare le finestre dell'interno tre. Gli aveva raccontato che quella signora così elegantemente vestita era la figlia di sua figlia. Lui aveva amato entrambe ma per via del suo lavoro le aveva viste poco.
“E che lavoro facevate?” gli aveva chiesto curioso Ciro.
“Suonatore di oboe”. Il ragazzo aveva sorriso non capendo molto il senso di quella parola “oboe”.
“È uno strumento musicale ed io ero il più bravo d’Italia, sai?”
“E perché non vedevate vostra figlia e vostra nipote?”
“Perché quando ho incominciato a viaggiare per fare concerti importanti – e qui aveva aspirato l’ossigeno avidamente – non ho ritenuto giusto sottoporre a questo stress la mia famiglia, non volevo che si trasferissero di punto in bianco da una città all’altra spezzando tutti i legami e le amicizie e così però le ho perse”. Poi s’era zittito ruminando i suoi pensieri e giocherellando con gli interruttori della macchina nera che lo faceva respirare.
Anche ora ci giocherellava gettando continuamente sguardi a tutte le donne che passavano per la piazzetta. Ciro, appiccicato al vetro, intanto rifletteva che suo padre, invece, aveva insistito per portarlo con sé in quella città, lontano dalla nonna e dalla sua aia assolata ma che forse, alla luce di quello che era accaduto al signor Sotto Sotto, non era stata una cattiva idea. Concluse che ancora una volta la verità che ne deriva ha sempre molteplici aspetti. Certo a lui toccava il sacrificio enorme di stare lontano dal suo paese ma comunque niente a confronto del sacrificio di quel vecchio che ormai non aveva più la sua famiglia e neanche il suo oboe visto che respirava a fatica.
La donna dell’interno tre si fermò davanti al portone massaggiandosi le mani per cercare di scaldarle prima di stringere i pomi per aprire. Girò la testa e guardò quel vecchio intirizzito sulla panchina.
L’uomo trasalì e lei scrollò la testa spingendo con il piede il pesante portone e scomparendo nel buio dell’androne.
Ciro alla finestra assisteva per l’ennesima volta alla stessa scena.
Si sentì ribollire perché la verità, certe volte, era dura ma bisognava conviverci e, per questo, ci voleva anche un po’ di fantasia e lasciare che il rigurgito di api si trasformasse in miele.
Andò da sua madre, le chiese un tè bollente e lo portò al suo anziano amico.
“Non scalderà il cuore ma almeno un po’ le mani sì” gli disse porgendoglielo. Il vecchio sorrise prendendo la tazza tra i palmi: “Tua nonna è fortunata, e questa è una verità univoca!” gli disse.
Ciro sentì una fiamma d’orgoglio scaldargli il petto, un fuoco così caldo da spingerlo, a passo di soldato, a ritornare nel palazzo. Salì i gradini di corsa e ficcò il suo indice sul campanello dell’interno tre. Suonò, suonò e risuonò. Assordante, asfissiante, angosciante fin quando la nipote del signor Sotto Sotto non aprì stizzita, stupefatta, stordita.
“Voi non potete fare così, io la nonna ce l’ho lontana e mi manca come l’aria e voi che ce l’avete quaggiù lo snobbate. È da canaglia, almeno un sorriso, almeno una carezza. Ma che avete al posto del cuore un macigno?” e la fissò arrabbiato “Questo dovevo dirvi da tempo e ora ve l’ho detto”.
Lo strillò forte forte come volesse scolpire quelle parole nell’aria. La donna rimase silenziosa sulla porta a seguire con gli occhi quello strano ragazzo che mesto e svuotato riprendeva le scale per tornare nel suo appartamento.
Il freddo del nordeuropa era stato sostituito da quello polare ed ora, che il platano aveva perso tutte le foglie e i muri dei palazzi assorbivano freddo perché incapaci di resistervi, la panchina s’era fatta grigia come il cielo cupo e basso che sovrastava la piazzetta. Il signor Sotto Sotto era sempre là, seduto. Non innaffiava più perché l’acqua gelida rischiava solo di bruciare le radici dei suoi cespugli.
E non sbraitava più agitando il bastone. Né contro gli umani né contro i cani che ora sceglievano la sua aiuola per fare i propri bisognini. Batteva i denti perché la sua giacca che sapeva di naftalina era a malapena coperta da un vecchio scialle a quadroni di quelli che al paese di Ciro mettevano le donne prima di andare alla messa.
Stava lì e imperterrito continuava a fissare quella finestra.
Fissava, fissava, fissava anche quando Ciro gli portava il tè nel pomeriggio giusto per fargli compagnia, solo cinque minuti e scambiarci una parola.
In uno di quei giorni cupi con il vento che sferzava il platano, la portinaia fermò il ragazzo con la sua tazza bollente tra le mani. Aveva la gola stretta in un collo alto rosso e beige che gli restituiva un aspetto austero e poco simpatico.
“Tieni” gli disse consegnandogli un pacco con un nastro giallo “La signora del tre si è raccomandata che sia tu a darglielo” e con un cenno del capo indicò il signor Sotto Sotto.
“Va’ e fa’ il tuo dovere”.
Lo stupore non permise a Ciro di parlare neanche quando si presentò dinanzi al Signor Sotto Sotto con quel regalo. Il vecchio sussultò cercando di allontanare il dono.
“Ciro, macché hai fatto!” gli disse burbero.
“Non è mio, ve lo manda lei” e con la testa indicò le finestre dell’appartamento dell’interno tre.
Al vecchio tremarono le mani così tanto che faticò a strappare la carta del fagotto. Dentro c’era un morbido cappotto blu ed uno spartito musicale.
L’uomo lo scrutò, scorse con avidità tutto il pentagramma canticchiando tra i denti la melodia.
“E’ Mozart, il concerto per oboe” esclamò.
Una manciata di note come caramelle che piovono dal cielo caddero sui rami spogli del platano e poi trilli acuti ed una melodia piena di tenerezza. I do, i re, i sol venivano giù morbidi come fiocchi di neve.
Ciro sollevò lo sguardo.
La musica veniva dall’appartamento della nipote. Dietro ai vetri c’era lei, la signora dalla gonna gialla. Suonava.
“È mia nipote, è Viola” strillò il vecchio con tutto il fiato che si trovava in corpo.
“Ciro, suona l’oboe, suona l’oboe come me”.
Le lacrime scesero giù dai suoi occhi, lungo il viso rugoso sciogliendo quei fiocchi di musica che continuavano lievemente a cadere portando con sé una nuova verità.
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